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STUDIO PER UNA QUESTIONE DI LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE SULLA NORMATIVA COVID-19

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STUDIO PER UNA QUESTIONE DI LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE SULLA NORMATIVA COVID-19 [1]

Sommario: 1. Prefazione: la gestione della pandemia nel perimetro costituzionale; 2. Sinossi; 3. Oggetto dello studio; 4. Profili di ammissibilità del ricorso; 4.1 Legittimazione/interesse ad agire et al; 4.2 Attualità dell’interesse; 4.3 Illegittimità conseguenziale; 4.4 Oggetto del giudizio; 4.5 Sulla non manifesta infondatezza – i vizi: segue; 5. Sul fatto; 6. Sul diritto; 6.1 Violazione e falsa applicazione del d. lgs n. 1/2018; 6.2 Violazione del principio di legalità; 6.3 Violazione degli artt. 77-78 Cost. quale unica fonte costituzionale di poteri emergenziali; violazione dell’art. 15 L.400/19886.4 Violazione dell’art. 77Cost. per violazione del divieto di reiterazione dei d.l., 6.5 Illegittimità conseguenziale DPCM; 6.6 Violazioni del principio di legalità, dell’art. 23 Cost. e della riserva di legge relativa alla limitazione dei diritti fondamentali; 7. Violazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza; 8. Violazione del principio di non discriminazione; 9. Violazione degli artt. 117, comma secondo, lettere d), q) e h) (in materia di “sicurezza dello Stato”, “profilassi internazionale” e “ordine pubblico e sicurezza”) e comma terzo, (in materia di “tutela della salute”), Cost.; 10. Violazione degli art. 23 e 25 Cost.; 11Violazione dell’art. 117, 1 co, Cost; 12. Violazione dell’articolo 138 della Costituzione; 13. (PQM): a mo’ di conclusioni

  1. Prefazione: la gestione della pandemia nel perimetro costituzionale

La bussola che guida il lavoro è il rispetto e l’attuazione della Costituzione e come il regime giuridico relativo alla gestione della pandemia avrebbe dovuto trovare in essa il fondamento dell’agire ed i relativi limiti. Ciò, secondo lo schema classico del costituzionalismo liberal-democratico fondato sulla legittimazione del potere, ma soprattutto sulla capacità di determinarne i suoi limiti.

Come è noto, lo Stato democratico, ed in particolare il modello kelseniano, fondato sulla centralità del parlamento e sul costituzionalismo quale limite al potere, nella sapiente declinazione di fonti sulla produzione e fonti di produzione ha, sotto l’ombrello della legalità costituzionale, escluso che i fatti, ancorché emergenziali, potessero essere fonti di produzione giuridica. Nell’ambito dei principi fondativi della legalità costituzionale, sul punto la Corte è risultata molto eloquente: «la riconduzione ad unità delle sparse, frammentarie disposizioni giuridiche, la certezza che soltanto attraverso il superamento delle varie, numerose forme fonti, sostanziali e formali, dell’Antico Regime, si potesse raggiungere, insieme, la massima garanzia della riacquistata libertà individuale ed il massimo ordinato vivere sociale condussero a ravvisare nella legge, nella legge dello Stato, quale unità organica dell’intero popolo sovrano, il nuovo principio costituzionale, il nuovo fondamento del diritto», (sentenza n. 487 del 1989). E continua: «La riserva di legge non rappresenta quindi un formalismo, ma la garanzia che tutte le decisioni più importanti vengano prese dall’organo più rappresentativo del potere sovrano ovvero dal parlamento».

Insomma, la tenuta del costituzionalismo democratico, oltre a ruotare intorno al principio della separazione dei poteri, poggia su due pilastri, entrambi da declinare sul piano della loro dimensione sostanziale, ovvero il principio di legalità e la riserva di legge. In questo scenario, che più che interessarsi all’attribuzione del potere, s’interroga intorno alle sue limitazioni, la necessità, i cd. fatti emergenziali non avrebbero la capacità di produrre diritto, ovvero di porsi quale fonte del diritto.

Sulla base di questi principi, e soprattutto del quadro di riferimento costituzionale, lo Stato italiano, avrebbe potuto e dovuto fronteggiare la pandemia del Covid-19, incanalando i fatti emergenziali nelle procedure e garanzie costituzionali.

Come è noto, la scelta del nostro Costituente, per evitare svolte autoritarie, non è stata quella di introdurre un vero e proprio statuto dell’emergenza, sul modello dell’art. 48 della Costituzione di Weimar o dell’art. 16 della Costituzione francese.

Non in linea con il quadro di riferimento costituzionale, si è voluto, invece, creare uno statuto dell’emergenza ad hoc, fondato su una legge ordinaria con un uso disinvolto dei decreti legge. In particolare il primo (n. 6/2020) costituiva una vera e propria delega in bianco a favore dei dpcm; atti amministrativi generali, che trovano origine nella riforma della Presidenza del Consiglio operata con la legge n. 400 del 1988.

In sostanza, libertà fondamentali riconducibili agli artt. 13, 16, 17, 19 Cost. sarebbero state limitate da atti di natura amministrativa, in violazione della riserva di legge e del principio di legalità. Questa torsione del sistema delle fonti – ma aggiungerei anche della forma di governo parlamentare – è stata successivamente (a partire dal d.l. n. 19 del 2020) mitigata da quella che è stata definita la parlamentarizzazione della gestione dell’emergenza, che ha provato ad allinearla all’impianto costituzionale.

Ciò che si sostiene nel lavoro è che il sistema costituzionale, senza ricorrere a fonti extra ordinem, fondate di fatto sullo stato di necessità e quindi prive di fondamento giuridico, emarginando il ruolo del Parlamento, avrebbe in sé un sistema di garanzie e strumenti costituzionali dell’emergenza che sarebbero stati disattesi, o comunque non utilizzati.

Si riconoscono nel perimetro costituzionale strumenti che, secundumordinem, avrebbero potuto, nel rispetto del principio di legalità e della riserva di legge, limitare le libertà fondamentali. Tali strumenti, ovviamente, sono riconducibili agli artt. 77 e 78 Cost., sarebbero in grado di operare bilanciamenti tra diritti costituzionalmente garantiti, senza cedere alla deriva del diritto tiranno, ma soprattutto con tecniche di bilanciamento.

Un modello basato sulla democrazia della rappresentanza, sulla centralità dell’organo legislativo, in grado di resistere e di non cedere il passo ad un regime delle fonti extra ordinem, con conseguente strapotere delle pubbliche amministrazioni.

Il fatto – per quanto di natura emergenziale – non può legittimare l’adozione di atti extra ordinem. In sostanza, gli atti, secondo l’ordine prospettato, costituzionalmente orientato, seppur adottati in regime emergenziale, dovrebbero continuare a rispettare la riserva di legge assoluta, oltre, ovviamente ad essere conformi al principio di legalità. Quest’ultima si esprime nella sua dimensione, allorquando, realizza, rispetto all’atto sottostante, dei rigorosi parametri e vincoli di riferimento di natura sostanziale e procedurale.

Altro discorso per le ordinanze di cui all’art. 78 Cost. In questo caso le ordinanze del Governo, previo conferimento del potere da parte del Parlamento, possono considerarsi extra ordinem, ovvero legittimate, sempre nel rispetto dei principi di proporzionalità e adeguatezza, a derogare fonti normative di rango primario, incidendo, altresì, seppur in via temporanea, sulle libertà fondamentali.

A differenza dell’attuale gestione dell’emergenza, che vede, come si è detto, lo svilimento del ruolo del Parlamento, sia l’art. 77 che 78 Cost. assegnano all’organo legislativo, un ruolo centrale: il Parlamento deve convertire il decreto-legge (art. 77 Cost.), il Parlamento conferisce al Governo i poteri necessari (art. 78 Cost.). Nel primo caso, ci troviamo in presenza di atti giustiziabili dinanzi alla Corte costituzionale, sia in via incidentale che principale, nel secondo caso è possibile immaginare un conflitto di attribuzione. In entrambi casi il Parlamento, seppure con forme e contenuti diversi, esprime il proprio indirizzo politico.

In conclusione, lo stato di emergenza, o meglio più correttamente il fenomeno emergenziale, va ricondotto nel perimetro costituzionale dei casi straordinari di necessità ed urgenza di cui all’art. 77 Cost. e delle fonti secundumordinem, riservando ai DPCM natura di atti amministrativi meramente esecutivi, privi di capacità innovativa l’ordinamento giuridico.

Anche se va ricordato che il ricorso ad una legge materiale, piuttosto che ad una legge formale, è giustificato, ma limitatamente nel tempo, dall’esistenza di «casi straordinari di necessità ed urgenza…» come previsto appunto dall’art. 77 Cost., ciò significa che il perdurare della pandemia dovrà mutare la semantica del fenomeno: da gestione dell’emergenza si dovrà passare alla gestione ordinaria della pandemia, od anche ad un governo pubblico della pandemia

  1. Sinossi

Scopo del presente scritto è valutare se sussista una questione di legittimità costituzionale rispetto alla c.d. “filiera normativa COVID-19” che possa essere posta come motivo di ricorso avverso un provvedimento -emesso all’esito della filiera normativa- che commini una sanzione amministrativa per violazione di taluna/e delle disposizioni della filiera.

La risposta è affermativa, per le ragioni esposte in questo scritto.

La “filiera normativa COVID-19” (o “concatenazione produttiva”, per ricorrere alla nozione kelseniana,composta da (a) deliberazione/i del Consiglio dei Ministri dichiarativa/e di uno “stato di emergenza” in forza di norme poste dal Codice della Protezione Civile (peraltro finalizzate a gestire calamità naturali e immediati soccorsi alle popolazioni colpite),(b) decreti-legge, (c)Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (“DPCM”)e (d) ordinanze, ha costruito ex novo uno statuto emergenziale(per fronteggiare le costanti mutazioni del contesto pandemico) che, comprimendo diritti costituzionalmente garantiti al fine di contenere il diffondersi del contagio, appare privo di uno specifico fondamento costituzionale.

Il testo costituzionale, infatti(diversamente da altri referenti comparati), non contiene disposizioni che disciplinino puntualmente e specificamente lo stato di emergenza. Nondimeno, è rinvenibile all’interno dell’ordinamento costituzionale italiano un implicito “statuto costituzionale dell’emergenza” —espressione dei tradizionali principi del primum vivere e del salus rei publicae — costituito dai principi di unità e indivisibilità della Repubblica e di tutela della salute pubblica e della pubblica sicurezza, da specifiche fonti sulla produzione dell’emergenza (artt. 77 e 120 Cost) e dall’intangibilità dei principi supremi del vigente ordinamento costituzionale su tutti i diritti fondamentali.

Il decreto-legge, in particolare, rappresenta l’unico strumento in grado di affrontare con tempestività casi straordinari di necessità e urgenza salvaguardando, ad un tempo, la tenuta complessiva del sistema costituzionale in ragione della sua equiparazione alla legge ordinaria, del potere di emanazione del Presidente della Repubblica e della conversione in legge da parte delle Camere. Tuttavia, va indagato: (a) se il decreto-legge possa demandare la limitazione di diritti di rango costituzionale a un atto secondario (peraltro neppure collegiale) come il DPCM e (b) se l’ampiezza della discrezionalità ad esso conferita a individuare specifiche misure limitative di detti diritti sia costituzionalmente legittima (anche rispetto al grado di precisione e determinatezza del catalogo di misure in astratto previste dal decreto-legge).

La risposta ai due quesiti non può che essere negativa. Il DPCM non può adottare norme con valore di rango primario incidendo con misure specifiche su diritti e libertà costituzionali coperti da riserva di legge. Né si riscontrano nei decreti-legge che ne sono presupposto, i requisiti di specificità, immediata applicabilità e temporaneità previsti dal legislatore e dalla Corte Costituzionale. Il DPCM assume una funzione non già integrativa ma sostitutiva del disposto del decreto-legge, che funge da “norma in bianco” esclusivamente attributiva di competenza, sì da spogliare il legislatore del potere di convertire o meno, o emendare, quella che, nonostante una storica eterogenesi dei fini, resta la fonte primaria dell’emergenza. Vengono così violati, in primis, il principio di legalità e gli artt. 77-78 Cost. quali unica fonte costituzionale di poteri emergenziali.

Risulta poi in violazione della riserva di legge (formale e sostanziale) di cui all’art. 23 Cost. la compressione di diritti fondamentali quali il diritto al lavoro (articolo 4), le libertà di circolazione (articolo 16),riunione (articolo 17) e culto (articolo 19), il diritto all’istruzione (articolo 33), il diritto di agire e resistere in giudizio (articolo 24), quindi il diritto al giusto processo (articolo 111), il diritto di proprietà (articolo 42) e sinanche la libertà personale (articolo 13) e il diritto alla salute (articolo 32) rispetto a patologie fisiche o mentali diverse dal Covid-19-diritti che sono pilastro dell’ordinamento democratico e consentono il pieno sviluppo della persona. La concreta entità della “prestazione” imposta, compresal’imposizione coattiva di obblighi di non fare(“in quanto, imponendo l’omissione di un comportamento altrimenti riconducibile alla sfera del legalmente lecito, è anch’essa restrittiva della libertà dei cittadini, suscettibile di essere incisa solo dalle determinazioni di un atto legislativo…espressivo della sovranità popolare”) deve essere chiaramente desumibile dalla legge che ne delega l’attuazione all’amministrazione, come insegna la Corte Costituzionale(v. sentenze nn. 190 del 2007 e 155 del 2011).

L’endiadi decreti-legge/DPCM ha violato, inoltre, i principi di proporzionalità e ragionevolezza in tema di bilanciamento dei diritti fondamentali,finalizzati a impedire che l’illimitata espansione di uno di essi ne crei la “tirannia” nei confronti degli altri(che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona), in modo che sia sempre garantita una tutela unitaria e sistemica di tutti gli interessi costituzionali implicati(v. Corte cost. sentenze nn. 264 del 2012,85 del 2013, 63 del 2016e 58 del 2018). Ulteriori violazioni di principi costituzionali, con riferimento alle sanzioni previste per violazione delle restrizioni dei diritti fondamentali, alla mancata attivazione della deroga ai sensi della CEDU e all’autentica sovversione del principio di rigidità costituzionale e della Costituzione come fonte sulla produzione del diritto, sono trattate nella parte finale di questo scritto.

Resta da definire la questione della “giustiziabilità” del DPCM, legata alla sua qualificazione giuridica come atto amministrativo di carattere generale o come atto avente natura normativa. Ad avviso degli scriventi, in base al criterio sostanziale utilizzato dalla giurisprudenza, il DPCM è un atto sostanzialmente normativo in quanto munito dei caratteri di generalità, astrattezza e innovatività tipici delle norme giuridiche. Peraltro, affetto da illegittimità è lo stesso decreto-legge, con conseguente vizio di illegittimità derivata (che si configura quando tra i due atti vi sia un rapporto di presupposizione -consequenzialità immediata, diretta e necessaria, nel senso che l’atto successivo si pone come inevitabile conseguenza di quello precedente).

Il DPCM è legato da rapporto di presupposizione necessaria al decreto-legge. Nella sua adozione, non vi sono nuove e ulteriori valutazioni di interessi, né del destinatario dell’atto presupposto, né di altri soggetti: l’invalidità dell’atto presupposto travolge gli effetti dell’atto consequenziale, producendo un effetto caducante. Il rapporto di presupposizione necessaria lega dunque tra loro, secondo la logica del principio gerarchico delle fonti del diritto ascendente, la sanzione amministrativa, il DPCM e il decreto-legge.

In definitiva, i decreti-legge nn. 6,19, 33 e 158/2020 sono incostituzionali nella parte in cui prevedono la competenza esclusiva del DPCM a determinare i presupposti concreti e le misure di contenimento del contagio, compressive di diritti fondamentali, in violazione inter alia degli articoli art. 3, 4,13, 16,17,19,23, 24, 25, 33,77, 78, 111, 117, comma 1, 120 e 138 della Costituzione. Conseguentemente si sostiene che i DPCM siano dichiarati incostituzionali per illegittimità derivata.  In merito alla vigenza ed effettività degli atti emanati sulla base dei DPCM incostituzionali per illegittimità derivata, detto vizio invalidante si ripercuote sull’atto conseguente, generando la c.d. invalidità caducante, in quanto il loro rapporto si sostanzia in una presupposizione-consequenzialità immediata, diretta e necessaria, nel senso che l’atto successivo si pone come inevitabile conseguenza di quello precedente.

  1. Oggetto dello studio

La questione di legittimità costituzionale che si presenta con riferimento alla “filiera normativa COVID-19” è stata pensata come motivo ad hoc di un ricorso avente ad oggetto l’impugnazione di un atto/provvedimento amministrativo che commina una sanzione amministrativa (ad esempio una multa) che trova in uno dei Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (“DPCM”) la sua fonte di legittimazione e che si considera lesiva di una delle libertà fondamentali toccate dai decreti-legge e dai DPCM che si sono succeduti a partire da marzo 2020 imponendosi come regime giuridico emergenziale (fonti extra ordinem)in luogo del regime giuridico ordinario (fonti secundumordinem). Le singole censure di incostituzionalità andrebbero, pertanto, agganciate al ricorso principale.

La vexata quaestio attiene alla qualificazione giuridica del DPCM come atto amministrativo di carattere generale o come atto avente natura normativa.

Sotto il primo profilo,“l’atto amministrativo generale ha destinatari indeterminabili a priori, ma certamente determinabili a posteriori in quanto è destinato a regolare non una serie indeterminata di casi ma, conformemente alla sua natura amministrativa, un caso particolare, una vicenda determinata, esaurita la quale vengono meno anche i suoi effetti”(cosi Consiglio di Stato, Ad. Plen. N. 9 del 2012).

Sotto il secondo profilo, è atto normativo un atto formalmente amministrativo in quanto emanato da organi del potere esecutivo ma sostanzialmente normativo in quanto munito dei caratteri di generalità, astrattezza e innovatività, tipici delle norme giuridiche

Caratteristiche comuni agli atti amministrativi generali e agli atti normativi sono: l’esonero dall’obbligo di motivazione, la non applicabilità delle garanzie partecipative, la limitazione del diritto di accesso e l’esclusione del sindacato di legittimità ex art. 134 Cost. perché limitato solo alle leggi, agli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni, permanendo solo il controllo di legittimità affidato al giudice del caso concreto, con possibilità di disapplicazione (art. 4 e 5 L.A.C. n. 2248/1865, all. E).

Al fine di inquadrare il DPCM tra gli atti amministrativi o tra gli atti normativi, occorre guardare al criterio sostanziale utilizzato dalla giurisprudenza, in forza del quale la natura dell’atto deve essere accertata in virtù del suo contenuto. La difficoltà interpretativa risiede nella variabilità della categoria in questione: si pensi all’atto con cui si adotta il regolamento interno del Consiglio dei Ministri, che l’art. 4, co. 4, l. 400/1988 individua nel DPCM e non nel decreto governativo collegiale.

In merito, poi, alla giustiziabilità del DPCM vige il regime dell’annullabilità per eccesso di potere (si veda da ultimo, Corte di Cassazione, Sez. Unite, 12 luglio 2019, n. 18829): in questo caso l’atto viziato è annullabile da una espressa pronuncia giurisdizionale quando affetto da vizi di legittimità.

Diversa è l’ipotesi in cui affetto da illegittimità non è direttamente il DPCM ma l’atto normativo che ne costituisce il presupposto giuridico necessario, nella nostra fattispecie il decreto legge: in questo caso ricorre il vizio dell’illegittimità derivata che si configura quando tra i due atti vi sia un rapporto di presupposizione-consequenzialità immediata, diretta e necessaria, nel senso che l’atto successivo si pone come inevitabile conseguenza di quello precedente, sicché non vi sono nuove e ulteriori ponderazioni di interessi, né del destinatario dell’atto presupposto, né di altri soggetti (in altri termini, l’invalidità dell’atto presupposto travolge gli effetti dell’atto consequenziale, producendo un effetto caducante). È la tesi sostenuta dal Giudice di Pace di Frosinone nella sentenza n. 516/2020 del 29 luglio 2020, con la quale è stata disposta per il caso in esame la disapplicazione ex art. 4 e 5 LAC 2248/1865 all. E del DPCM, atto presupposto del verbale applicativo delle sanzioni amministrative pecuniarie annullate, ritenendolo non solo illegittimo per violazione del principio di legalità non avendo adeguata copertura legislativa, ma altresì incostituzionale. Un nesso, quello della presupposizione-consequenzialità, che spiega la relazione della catena normativa emergenziale e che si propone come censura caducante l’endiadi normativa decreto-legge/DPCM e pertanto fondante il fumus boni iuris per sollevare un’eccezione di incostituzionalità.

  1. Profili di ammissibilità del ricorso

4.1 Legittimazione/interesse ad agire

1) sotto il profilo soggettivo: (a) tutti coloro che impugnano un provvedimento sanzionatorio nell’ambito del processo pendente; (b) il giudice del caso pendente; (c) il PM. L’interesse deve essere attuale, vale a dire la lesione del diritto deve essere concreta (art. 23 l. 87/1953, comma 1);

2) sotto il profilo oggettivo (art. 23, comma 1 l. 87/1953: (a) le disposizioni della legge o dell’atto avente forza di legge dello Stato o di una Regione, viziate da illegittimità costituzionale; (b) le disposizioni della Costituzione o delle leggi costituzionali, che si assumono violate;

3) Rilevanza della questione: necessaria applicazione delle norme impugnate al caso in questione (in questo caso l’endiadi decreto-legge/DPCM sarebbe applicabile al caso pendente perché atti fonte della sanzione amministrativa impugnata nel processo principale, in virtù del principio di legalità formale e sostanziale);

4) Non manifesta infondatezza (v. considerazioni seguenti sui vizi)

4.2 Attualità dell’interesse: l’interesse è attuale in quanto la normativa che si assume incostituzionale per illegittimità conseguenziale è presupposto (sebbene asserito illegittimo) del provvedimento sanzionatorio impugnato.

4.3 Illegittimità conseguenziale: Il primo comma dell’art. 27 della l. n. 87/1953 prevede che “la Corte costituzionale, quando accoglie una istanza o un ricorso relativo a questioni di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge, dichiara, nei limiti dell’impugnazione, quali sono le disposizioni legislative illegittime”.  Il secondo comma della medesima norma dispone che la Corte costituzionale “dichiara, altresì, quali sono le altre disposizioni legislative la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata”. In questo senso, ex plurimis, si vedano Corte cost., sent. nn. 97/1980, 5/1986, 291/2013, 170/2014;ad esempio, nella sent. n. 34/1961 la Corte considera che “la dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge n. 43 [oggetto dell’impugnazione], facendo venir meno la premessa della successiva legge n. 44, porta a eguale dichiarazione per quest’ultima, ai sensi dell’art. 27 legge 11 marzo 1953, n. 87” (v. anche Corte cost., sent. n. 54/1958; Corte cost., sent. n. 5/1962; Corte cost., sent. nn. 155/1963 e 108/1969; Corte cost., sent. nn. 18/1956, 4/1958, 39/1963; Corte cost., sent. nn. 100/1967, 11/1956, 113/1957, 21/1968, 71/1967 e 59/2017; Corte cost., sent. nn. 38/1960, 23/1966 e 93/2017).

Occorre capire se lo stesso nesso di conseguenzialità possa instaurarsi tra il decreto-legge e i DPCM nella vicenda Covid-19. Si propende per l’affermativa, posto che il DPCM ha la sua fonte di legittimazione nel decreto-legge in virtù del rapporto di presupposizione necessaria.

4.4 Oggetto del giudizio: cosa impugniamo? La dichiarazione dell’emergenza sanitaria e successive proroghe; i dd.ll. 6/202 e 19/2020 e successive modifiche?

La giurisprudenza è ferma nell’escludere che l’oggetto di una QLC possa essere dato da un intero testo di legge, eccezion fatta per il caso che il “vulnus derivi dall’intero corpus normativo” (sent. n. 156 del 2001, ord. n. 286 del 2001).

Con riferimento alla successione di atti normativi riproduttivi di intere disposizioni lesive di diritti fondamentali, la Corte rileva che “l’effetto finale è stato quello di assicurare, pur nel succedersi delle disposizioni, una piena continuità normativa della disciplina oggetto dei dubbi di legittimità costituzionale. Pertanto, in una tale evenienza, il susseguirsi delle disposizioni non fa venir meno la perdurante rilevanza della questione di legittimità costituzionale sollevata e non ne pregiudica l’esame nel merito da parte di questa Corte. Diversamente, si consentirebbe al legislatore di dilazionare, ostacolare o addirittura impedire il giudizio di questa Corte, in contrasto con il principio di economia dei giudizi (sent. 84 del 1996) e a scapito della pienezza, tempestività ed effettività del sindacato di costituzionalità delle leggi, compromettendo in modo inaccettabile la tutela di diritti fondamentali… L’iter seguito dal legislatore è dunque tortuoso e del tutto anomalo: non si tratta, infatti, né di una semplice mancata conversione, né di una reale abrogazione e neppure di una abrogazione con successiva diversa regolamentazione. Nella specie, sotto l’apparenza di una abrogazione, la successione di disposizioni legislative dissimula (attraverso un uso improprio della legge di conversione) una effettiva continuità di contenuti normativi che, traendo origine dalla disposizione iniziale “abrogata”, permangono grazie alla sanatoria e si protraggono nel tempo in virtù dell’articolo che li riproduce. In tale quadro normativo, la norma oggetto del giudizio vive nell’ordinamento in forza di una inscindibile combinazione di disposizioni strettamente interconnesse tra loro. Pertanto, il giudizio di costituzionalità non potrà che investire tutte le disposizioni considerate in combinazione tra loro” (sent. n. 58/2018).

4.5    Sulla non manifesta infondatezza – i vizi: segue

  1. Sul fatto

Le misure di contenimento e contrasto alla diffusione del COVID-19 poste in essere dal Governo sono state numerose, in parte confuse e, talvolta, sovrapposte. È dunque preliminarmente necessario effettuare una disamina dettagliata delle varie fonti adottate individuandone il fondamento.

Per testare se la normazione prodotta a partire dalla dichiarazione dello stato di emergenza del 31 gennaio 2020 abbia un fondamento di legittimità, può rivelarsi utile rispolverare la collaudata teoria kelseniana del “fondamento giuridico dell’unità della concatenazione produttiva[2] che individua la fonte di legittimazione dell’ordinamento giuridico nella catena normativa che lega la fonte di grado inferiore a quella di grado superiore (e che a ritroso individua il principio di giustificazione nel principio-base costituzionale).

La “concatenazione produttiva”, posta in essere dal potere esecutivo, è stata la seguente: 1) deliberazione normativa del Consiglio dei Ministri; 2) decreti-legge; 3) DPCM/ordinanze.

Si devono invero individuare tre distinti filoni normativi legati alla gestione dell’emergenza: il primo, attinente alla deliberazione dello stato d’emergenza da parte del Consiglio dei ministri; il secondo, relativo ai poteri di ordinanza intitolati al Ministro della salute, ai Presidenti di Regione e ai sindaci; il terzo, attinente al ricorso combinato di decreto-legge e DPCM a partire dal decreto-legge 6/2020.

Fra questi si deve operare una chiara distinzione. Anzitutto, la deliberazione dello stato di emergenza — approvata dal Consiglio dei ministri il 31 gennaio 2020 e prorogata con successive delibere consiliari del 29 luglio e del 7 ottobre 2020 — è stata effettuata in forza degli artt. 24 e 7, comma primo, lettera c del decreto legislativo n.1 del 2 gennaio 2018 (cd. Codice della Protezione Civile). Si tratta di uno statuto emergenziale di rango legislativo eminentemente finalizzato ad organizzare il Dipartimento della Protezione Civile costituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri in vista della gestione di eventi calamitosi e del relativo soccorso alle popolazioni colpite, con attivazione dell’apposito fondo emergenziale (art. 44 del citato decreto) e di poteri straordinari di ordinanza del Capo della Protezione Civile limitati all’estensione temporale dello stato di emergenza.

In secondo luogo, l’art. 32 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 dispone che: «il Ministro della sanità può emettere ordinanze di carattere contingibile e urgente, in materia di igiene e sanità pubblica e di polizia veterinaria, con efficacia estesa all’intero territorio nazionale o a parte di esso comprendente più regioni. (…) Nelle medesime materie sono emesse dal presidente della giunta regionale o dal sindaco ordinanze di carattere contingibile ed urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio comprendente più comuni e al territorio comunale». Si tratta, ancora una volta, dell’attivazione di poteri sostanzialmente emergenziali — anche in ragione dell’atto autorizzato, l’ordinanza, atto straordinario par excellence — sulla base di presupposti di legge. Va segnalato come il ricorso a tale normativa sia stato particolarmente contenuto nel tempo.

La disposizione in commento ha fornito la base legale per le ordinanze del Ministro della salute adottate sino all’emanazione del primo dei molti DPCM a loro volta emanati sulla distinta base normativa rappresentata dal DL 6/2020.

Viene infine in rilievo il filone normativo rappresentato dalla combinazione fra decreto-legge e DPCM e successiva informativa alle Camere da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri delle misure adottate con proprio decreto. Si tratta di uno statuto emergenziale, elaborato ex novo per fronteggiare le pur innegabili costanti e rapide mutazioni del contesto emergenziale stesso ed in particolare finalizzato a comprimere taluni diritti costituzionalmente garantiti allo scopo di contenere il diffondersi del contagio, che appare privo di uno specifico fondamento costituzionale, nel senso di non essere disciplinato come tale dalla Costituzione.

Non è, tuttavia, il ricorso al decreto-legge in sé a presentare profili di dubbia compatibilità con la Costituzione. Il testo costituzionale — diversamente da altri referenti comparati — non contiene una o più disposizioni che disciplinino puntualmente e specificamente lo stato di emergenza. Nondimeno, come rilevato dalla dottrina[3], è rinvenibile all’interno dell’ordinamento costituzionale italiano un “implicito statuto costituzionale dell’emergenza” — espressione dei tradizionali principi del primum vivere e del salus rei publicae — costituito dai principi di unità e indivisibilità della Repubblica, di tutela della salute pubblica e della pubblica sicurezza, da specifiche fonti sulla produzione dell’emergenza (artt. 77 e 120 Cost) e dall’intangibilità dei principi supremi del vigente ordinamento costituzionale, su tutti i diritti fondamentali.

Il decreto-legge, in particolare, rappresenta l’unico strumento in grado di affrontare con tempestività casi straordinari di necessità e urgenza salvaguardando, ad un tempo, la tenuta complessiva del sistema costituzionale in ragione della sua equiparazione alla legge ordinaria (e, in conseguenza, al sindacato di legittimità costituzionale della Corte costituzionale), del potere di emanazione del Presidente della Repubblica (che presuppone un primo controllo di legittimità specialmente sui requisiti costituzionali della necessità e dell’urgenza)e della conversione in legge da parte delle Camere (che consente di sottoporre l’atto di matrice governativa alla discussione parlamentare innescando i meccanismi classici della forma di governo parlamentare).

Ciò che va indagato, in particolare, attiene:

  1. a) alla possibilità o meno per il decreto-legge di demandare la limitazione di diritti costituzionalmente garantiti a un atto secondario che, oltretutto, da un punto di vista sostanziale non è atto collegiale ma monocratico seppure adottato previa consultazione di determinati ministri; e
  2. b) all’ampiezza della discrezionalità conferita all’atto autorizzato a individuare nello specifico le misure limitative di diritti di rango costituzionale e pertanto, più a monte, al grado di precisione e determinatezza del catalogo di misure in astratto previste dal decreto-legge.
  1. Sul Diritto

6.1Violazione e falsa applicazione del d. lgs n. 1/2018, che non costituisce il presupposto legale per la dichiarazione dello stato di emergenza. Va sottolineato che, proprio in ragione della chiara distinzione fra i tre filoni normativi prima delineati, il richiamo alla deliberazione (e alla proroga) dello stato di emergenza da parte del Consiglio dei ministri a norma del Codice della Protezione Civile nel preambolo dei vari DPCM adottati nel corso dell’emergenza è ultroneo. Il fondamento normativo di rango primario che ha abilitato i poteri del Presidente del Consiglio non è, infatti, da ricercarsi negli artt. 7 e 24 del d.lgs. 1/2018 ma nello stesso decreto-legge. È, pertanto, su questo che deve concentrarsi l’attenzione dell’interprete finalizzato a indagare la legittimità costituzionale della catena normativa (costituita da decreti-legge-DPCM) in quanto: a) atto avente forza di legge e pertanto oggetto diretto di sindacato di costituzionalità letto l’art. 134 Cost.; e b) base normativa dei susseguenti DPCM.

6.2)Violazione del principio di legalità: il DPCM non può adottare norme con valore di rango primario incidendo su diritti e libertà costituzionali coperti da riserva di legge. Nel concreto, il DL 6/2020 ha aperto la strada all’utilizzo del DPCM come atto unico autorizzato a adottare in concreto le specifiche misure di contrasto e contenimento del contagio comportanti, come meglio si vedrà, svariate limitazioni a diritti costituzionalmente protetti. Successivamente abrogato quasi per intero dal DL 19/2020 che, pur tentando di reagire a più di una critica mossa nei confronti dell’eccessiva indeterminatezza delle disposizioni del precedente decreto, ne ha, in sostanza, mantenuto inalterati la logica di fondo ed il particolare procedimento “inventato” dal DL n. 6. Nello specifico, l’art. 1 del citato decreto prevede le misure in astratto adottabili, demandando poi, all’art. 2, la concreta adozione delle stesse al Presidente del Consiglio con proprio decreto, su  proposta  del Ministro della salute, sentiti i Ministri dell’interno, della difesa, dell’economia e delle finanze e  gli  altri ministri competenti per materia, nonché i Presidenti  delle  Regioni interessate, nel caso in cui riguardino esclusivamente una Regione o alcune specifiche Regioni,  ovvero  il  Presidente  della  Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, nel caso in  cui  riguardino l’intero territorio nazionale. Il decreto così adottato viene, poi, comunicato, entro il giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale alle Camere, avanti le quali il Presidente del Consiglio o ministro delegato riferisce entro quindici giorni. Non si sottrae alla filiera normativa neanche il dl n. 125/2020 che proroga lo stato di emergenza legislativa introducendo puntuali modifiche ai dd.ll. n. 23/2020; 33/2020; n. 34/2020; n. 83/2020 fino al 31 dicembre 2020. In tema di individuazione del parametro della violazione, la Corte costituzionale afferma che “nei casi in cui sia sicuramente identificato dal giudice a quo il principio costituzionale del quale si assuma la violazione” si considera “irrilevante l’indicazione di un articolo o di un comma diverso da quello in cui il principio è da ritenere effettivamente espresso (v., p.es., la sentenza n. 6 del 1962 e l’ordinanza 149 del 1963). Ciò tanto più ha da valere allorquando venga in questione una regola costituzionale comune a tutta una materia ordinata nella Carta fondamentale in un sistema unitario, per quanto distribuita in più articoli”.

6.3) Violazione degli artt. 77-78 Cost. quale unica fonte costituzionale di poteri emergenziali; violazione dell’art. 15 L.400/1988.

Il combinato disposto degli articoli 77 e 78 della Costituzione, nel rivelare uno statuto minimo dell’emergenza, richiede che questa sia governata nell’equilibrio tra poteri, nel coinvolgimento costante del Parlamento, nella garanzia del Capo dello Stato, e quindi, che il decreto-legge sia lo strumento per eccellenza di governo dell’emergenza e a questo sia rimessa la competenza esclusiva sulla compressione dei diritti fondamentali. Tali norme costituzionali sarebbero violate dalla previsione dell’utilizzo del DPCM non già con funzione integrativa ma sostitutiva del disposto del decreto-legge, che fungerebbe quindi da “norma in bianco” esclusivamente attributiva di competenza, in guisa da spogliare il legislativo del potere di convertire, non convertire, emendare quella che, nonostante una storica eterogenesi dei fini, resta la fonte primaria dell’emergenza. Si tradisce in questo modo il rapporto tra decreto-legge e atti amministrativi esecutivi, così come concepito all’interno del nostro sistema delle fonti. Non si riscontrano infatti in tale decreto-legge i requisiti di specificità, immediata applicabilità e temporaneità previsti dal legislatore, in particolare nell’art 15 della legge n. 400/1988, dotata peraltro di una sorta di legittimazione costituzionale per il tramite della sentenza della Corte costituzionale n. 22/2012.

6.4)Violazione dell’art. 77Cost.  per violazione del divieto di reiterazione dei d.l.

L’art. 2, comma 3, DL 19/2020, nel far salvi gli effetti prodotti dal DL 6/2020si pone in rapporto di reiterazione implicita con il decreto n. 6/2020, che continua così a fungere da base legale dei DPCM emanati ed emanandi[4]. La successiva proroga dello stato di emergenza dimostra il passaggio dallo stato di urgenza pandemico alla gestione ordinaria della pandemia, venendo meno i presupposti di straordinarietà giustificativi dell’adozione dei decreti-legge e conseguentemente dei DPCM (v. sent. n. 360/1996).

6.5Illegittimità conseguenziale DPCM: il DPCM è legato da rapporto di presupposizione necessaria al decreto-legge. Questo sta a significare che, nell’adozione del DPCM, non vi sono nuove e ulteriori valutazioni di interessi, né del destinatario dell’atto presupposto, né di altri soggetti (in altri termini, l’invalidità dell’atto presupposto travolge gli effetti dell’atto consequenziale, producendo un effetto caducante). Il rapporto di presupposizione necessaria lega tra loro, secondo la logica del principio gerarchico delle fonti del diritto ascendente, la sanzione amministrativa, il DPCM e il decreto-legge. Secondo un orientamento giurisprudenziale, il nesso di conseguenzialità va motivato, pena l’inammissibilità (Corte cost., sent. n. 138/2009).

6.6)Violazioni del principio di legalità, dell’art. 23 Cost. e della riserva di legge relativa alla limitazione dei diritti fondamentali

L’analisi articola su due profili:

– formale, per l’inidoneità del DPCM, atto monocratico, a costituire legittimo esercizio di potestà normativa su materie coperte da riserva di legge, essendo l’esercizio di funzioni legislative (ex artt. 76 e 77) riservata al Governo nella sua composizione collegale;

– sostanziale, ossia la proporzionalità delle misure adottate in via generale (con legge o atto avente forza di legge) affinché la limitazione non si traduca in negazione della libertà.

La questione della conformità alla Costituzione delle fonti della catena normativa dell’emergenza risulta di primaria importanza in ragione della compressione di diritti fondamentalissimi quale il diritto al lavoro (articolo 4) nella sua accezione dipendente, autonoma e imprenditoriale, il diritto di circolazione (articolo 16), il diritto di riunione (articolo 17), il diritto all’istruzione (articolo 33), di base e superiore, il diritto di culto (articolo 19), il diritto di agire e resistere in giudizio e (articolo 24) quindi il diritto al giusto processo (articolo 111), il diritto di proprietà (articolo 42) e sinanche la libertà personale (articolo 13) e il diritto alla salute (rispetto alle patologie fisiche e mentali diverse dal Covid-19): tali diritti, che si esplicano inevitabilmente nella loro dimensione sociale, sono il pilastro di un ordinamento democratico giacché consentono il pieno sviluppo della persona, la tutela dei suoi interessi, la realizzazione di quel substrato culturale e ideologico sul quale si fonda il vivere democratico.

Può quindi la legge o l’atto avente forza di legge autorizzare la fonte normativa secondaria a comprimere queste libertà fondamentali? Può la legge – intesa in senso sostanziale – abdicare alla sua funzione primaria di baluardo dei diritti fondamentali attraverso una “norma in bianco”? Appare evidente come, pur dovendo ammettere l’esistenza di un vivace dibattito dottrinale sul tema, tanto la riserva di legge cd. assoluta, quanto quella cd. relativa, impediscano radicalmente un tale modello di normazione: diritti della portata di quelli compressi -specie durante la prima fase dell’emergenza- non possono tollerare il silenzio della legge, né la laconicità del dettato normativo del d.l. 6/2020 che, individuando presupposti oltremodo generici e confini evanescenti, demandava integralmente a un deformalizzato e privo di garanzie DPCM la degradazione ad libitum di diritti e libertà coessenziali alla tenuta democratica del sistema. Le riserve di legge previste rispettivamente dagli articoli 4, 16, 17, 19, 24, 33, 111 della Costituzione, che, pur relative come nel caso dell’art.16, risultano superate dalla super-competenza del DPCM che non si limita a disporre misure al verificarsi del presupposto, ma che è fonte che disciplina lo stesso presupposto.

La Corte costituzionale, nella sentenza n. 115 del 2011, ha precisato la relazione che, in virtù del principio di legalità formale e sostanziale espresso dalla riserva di legge, deve intercorrere tra atto amministrativo e atto legislativo presupposto a garanzia dei diritti fondamentali. La Corte “ha affermato, in più occasioni, l’imprescindibile necessità che in ogni conferimento di poteri amministrativi venga osservato il principio di legalità sostanziale, posto a base dello Stato di diritto. Tale principio non consente «l’assoluta indeterminatezza» del potere conferito dalla legge ad una autorità amministrativa, che produce l’effetto di attribuire, in pratica, una «totale libertà» al soggetto od organo investito della funzione (sentenza n. 307 del 2003; in senso conforme, ex plurimis, sentenze n. 32 del 2009 e n. 150 del 1982). Non è sufficiente che il potere sia finalizzato dalla legge alla tutela di un bene o di un valore, ma è indispensabile che il suo esercizio sia determinato nel contenuto e nelle modalità, in modo da mantenere costantemente una, pur elastica, copertura legislativa dell’azione amministrativa. Le ordinanze sindacali oggetto del presente giudizio incidono, per la natura delle loro finalità (incolumità pubblica e sicurezza urbana) e per i loro destinatari (le persone presenti in un dato territorio), sulla sfera generale di libertà dei singoli e delle comunità amministrate, ponendo prescrizioni di comportamento, divieti, obblighi di fare e di non fare, che, pur indirizzati alla tutela di beni pubblici importanti, impongono comunque, in maggiore o minore misura, restrizioni ai soggetti consideratiLaCostituzione italiana, ispirata ai principi fondamentali della legalità e della democraticità, richiede che nessuna prestazione, personale o patrimoniale, possa essere imposta, se non in base alla legge (art. 23). La riserva di legge appena richiamata ha indubbiamente carattere relativo, nel senso che lascia all’autorità amministrativa consistenti margini di regolazione delle fattispecie in tutti gli ambiti non coperti dalle riserve di legge assolute, poste a presidio dei diritti di libertà, contenute negli artt. 13 e seguenti della Costituzione. Il carattere relativo della riserva de qua non relega tuttavia la legge sullo sfondo, né può costituire giustificazione sufficiente per un rapporto con gli atti amministrativi concreti ridotto al mero richiamo formale ad una prescrizione normativa “in bianco”, genericamente orientata ad un principio-valore, senza una precisazione, anche non dettagliata, dei contenuti e modi dell’azione amministrativa limitativa della sfera generale di libertà dei cittadini.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, costante sin dalle sue prime pronunce, l’espressione «in base alla legge», contenuta nell’art. 23 Cost., si deve interpretare «in relazione col fine della protezione della libertà e della proprietà individuale, a cui si ispira tale fondamentale principio costituzionale»; questo principio «implica che la legge che attribuisce ad un ente il potere di imporre una prestazione non lasci all’arbitrio dell’ente impositore la determinazione della prestazione» (sentenza n. 4 del 1957). Lo stesso orientamento è stato ribadito in tempi recenti, quando la Corte ha affermato che, per rispettare la riserva relativa di cui all’art. 23 Cost., è quanto meno necessario che «la concreta entità della prestazione imposta sia desumibile chiaramente dagli interventi legislativi che riguardano l’attività dell’amministrazione» (sentenza n. 190 del 2007). È necessario ancora precisare che la formula utilizzata dall’art. 23 Cost. «unifica nella previsione i due tipi di prestazioni “imposte”» e «conserva a ciascuna di esse la sua autonomia», estendendosi naturalmente agli «obblighi coattivi di fare» (sentenza n. 290 del 1987). Si deve aggiungere che l’imposizione coattiva di obblighi di non fare rientra ugualmente nel concetto di “prestazione”, in quanto, imponendo l’omissione di un comportamento altrimenti riconducibile alla sfera del legalmente lecito, è anch’essa restrittiva della libertà dei cittadini, suscettibile di essere incisa solo dalle determinazioni di un atto legislativo, direttamente o indirettamente riconducibile al Parlamento, espressivo della sovranità popolare. Nella materia in esame è intervenuto il decreto del Ministro dell’interno 5 agosto 2008 (Incolumità pubblica e sicurezza urbana: definizione e ambiti di applicazione). In tale atto amministrativo a carattere generale, l’incolumità pubblica è definita, nell’art. 1, come «l’integrità fisica della popolazione», mentre la sicurezza urbana è descritta come «un bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell’ambito delle comunità locali, del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale». L’art. 2 indica le situazioni e le condotte sulle quali il sindaco, nell’esercizio del potere di ordinanza, può intervenire, «per prevenire e contrastare» le stesse. Il decreto ministeriale sopra citato può assolvere alla funzione di indirizzare l’azione del sindaco, che, in quanto ufficiale del Governo, è sottoposto ad un vincolo gerarchico nei confronti del Ministro dell’interno (…). La natura amministrativa del potere del Ministro, esercitato con il decreto sopra citato, se assolve alla funzione di regolare i rapporti tra autorità centrale e periferiche nella materia, non può soddisfare la riserva di legge, in quanto si tratta di atto non idoneo a circoscrivere la discrezionalità amministrativa nei rapporti con i cittadini. Il decreto, infatti, si pone esso stesso come esercizio dell’indicata discrezionalità, che viene pertanto limitata solo nei rapporti interni tra Ministro e sindaco, quale ufficiale del Governo, senza trovare fondamento in un atto avente forza di legge. Solo se le limitazioni e gli indirizzi contenuti nel citato decreto ministeriale fossero stati inclusi in un atto di valore legislativo, questa Corte avrebbe potuto valutare la loro idoneità a circoscrivere la discrezionalità amministrativa dei sindaci. Nel caso di specie, al contrario, le determinazioni definitorie, gli indirizzi e i campi di intervento non potrebbero essere ritenuti limiti validi alla suddetta discrezionalità, senza incorrere in un vizio logico di autoreferenzialità. Si deve, in conclusione, ritenere che la norma censurata, nel prevedere un potere di ordinanza dei sindaci, quali ufficiali del Governo, (…) viola la riserva di legge relativa, di cui all’art. 23 Cost., in quanto non prevede una qualunque delimitazione della discrezionalità amministrativa in un ambito, quello della imposizione di comportamenti, che rientra nella generale sfera di libertà dei consociati. Questi ultimi sono tenuti, secondo un principio supremo dello Stato di diritto, a sottostare soltanto agli obblighi di fare, di non fare o di dare previsti in via generale dalla legge.

Si deve rilevare altresì la violazione dell’art. 97 Cost., che istituisce anch’esso una riserva di legge relativa, allo scopo di assicurare l’imparzialità della pubblica amministrazionela quale può soltanto dare attuazione, anche con determinazioni normative ulteriori, a quanto in via generale è previsto dalla legge. Tale limite è posto a garanzia dei cittadini, che trovano protezione, rispetto a possibili discriminazioni, nel parametro legislativo, la cui osservanza deve essere concretamente verificabile in sede di controllo giurisdizionale. La stessa norma di legge che adempie alla riserva può essere a sua volta assoggettata – a garanzia del principio di eguaglianza, che si riflette nell’imparzialità della pubblica amministrazione – a scrutinio di legittimità costituzionale. La linea di continuità fin qui descritta è interrotta nel caso oggetto del presente giudizio, poiché l’imparzialità dell’amministrazione non è garantita ab initio da una legge posta a fondamento, formale e contenutistico, del potere sindacale di ordinanza. L’assenza di limiti, che non siano genericamente finalistici, non consente pertanto che l’imparzialità dell’agire amministrativo trovi, in via generale e preventiva, fondamento effettivo, ancorché non dettagliato, nella legge”.

Il rapporto tra decreto ministeriale e ordinanza sindacale illustrato dalla sentenza 115/2011 è lo stesso che lega DPCM e ordinanze regionali, che è viziato per violazione del principio di legalità formale e sostanziale.

7) Violazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza

Va ancora segnalato che una giurisprudenza costituzionale costante in tema di bilanciamento di diritti fondamentali impone la tutela del nucleo essenziale dei diritti sacrificati, sacrificio che non può estendersi sino alla negazione dello stesso e che la discrezionalità delle scelte legislative deve rispondere ai criteri di proporzionalità e di ragionevolezza.

La filiera normativa pandemica, nel disporre (da ultimo) la chiusura di interi settori di attività economica, la didattica a distanza per alcune fasce di studenti, il divieto di circolazione nella fascia oraria notturna e il divieto di assembramenti (tralasciando le ancora più invasive restrizioni della libertà personale prodotte dalle norme della prima fase) ha prodotto a fronte della tutela alla salute un’irragionevole compressione della libertà di impresa, del diritto al lavoro, del diritto all’istruzione,delle libertà di circolazione e riunione (tra le altre), risultando pertanto non ispirata al principio di proporzionalità. Infatti, “Per essere tale, il bilanciamento deve essere condotto senza consentire «l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona» (sent. n. 85 del 2013). Il bilanciamento deve, perciò, rispondere a criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, in modo tale da non consentire né la prevalenza assoluta di uno dei valori coinvolti, né il sacrificio totale di alcuno di loro, in modo che sia sempre garantita una tutela unitaria, sistemica e non frammentata di tutti gli interessi costituzionali implicati (sentenze n. 63 del 2016 e n. 264 del 2012)” (Corte cost. 58/2018). A fronte, infatti, dei dati scientifici che hanno evidenziato come in alcuni settori di attività, ad esempio i cinema e i musei, non si sia verificato alcun caso di contagio (e come all’interno della scuola i casi di contagio fossero limitati), la misura della chiusura in luogo della predisposizione di protocolli di sicurezza produce l’effetto di sacrificare totalmente le libertà e i diritti costituzionali senza bilanciare interessi costituzionalmente protetti.

8) Violazione del principio di non discriminazione nel godimento dei diritti fondamentali in base alla regione di residenza e violazione dell’art. 3 Cost. e dell’art. 120 Cost.: la tutela dei diritti richiede l’esercizio unitario della potestà normativa.

9)Violazione degli artt. 117, comma secondo, lettere d), q) e h) (in materia di “sicurezza dello Stato”, “profilassi internazionale” e “ordine pubblico e sicurezza”) e comma terzo, (in materia di “tutela della salute”), Cost., in quanto si afferma essere evidente che nell’emergenza epidemiologica da COVID-19, venendo inciso il diritto primario alla salute, i principi fondamentali per la c.d. fase 2 spettano allo Stato, e solo norme dal carattere esecutivo spettano alle Regioni, nonché l’art. 120, secondo comma, Cost., che attribuirebbe al Governo il ruolo di garante dell’unità di azione e indirizzo dello Stato,  quando siano lesi il principio dell’unità giuridica e la tutela dei diritti fondamentali.

10)Violazione degli art. 23 e 25 Cost.: in ottemperanza alla sequela DPCM prima, e DL 33/2020 poi, emanati nel periodo più acuto dell’emergenza, sono state elevate, dapprima sanzioni penali a norma dell’art. 650 c.p. e, in un secondo momento, sanzioni amministrative comminate dall’art. 2 comma 1 del succitato DL. Orbene, per decidere tanto sulla sussistenza degli elementi del reato nel primo caso, quanto per confermare la validità della sanzione amministrativa nel secondo caso, il giudice eventualmente adito dovrà previamente interrogarsi circa la validità dei DPCM che fungono da presupposto delle fattispecie illecito penale e illecito amministrativo. Focalizzando l’interesse sulle sole sanzioni amministrative tutt’ora in vigore, occorre precisare che, essendo il DPCM atto normativo (non già amministrativo) giacché dotato dei caratteri di innovatività, generalità e astrattezza, al giudice civile (competente in caso di ricorso avverso ordinanza-ingiunzione quale è la sanzione comminata dal DL 33/2020) non resterà che una duplice opzione: disapplicare il DPCM e annullare la sanzione, ovvero sollevare la questione di costituzionalità incidentale avverso l’unico atto impugnabile, che rappresenta la base normativa del DPCM, ossia il DL 19/2020, per avere incostituzionalmente autorizzato una fonte secondaria priva delle garanzie partecipative minime del Presidente della Repubblica e del Parlamento a comprimere diritti e libertà fondamentali.

Nei casi in cui alla pena originaria sia sostituita una sanzione amministrativa (nella specie, l’inottemperanza del DPCM 9 marzo 2020 era, in prima battuta, punita ai sensi dell’art. 650 c.p.), la Corte costituzionale, nella sentenza 193/2016, richiamando i criteri Engel della Corte EDU, ha ammesso la possibilità di applicare analogicamente il principio di irretroattività ex art. 2 c.p. alle sanzioni amministrative che si presentino come sostanzialmente penali. E se per stabilire la natura dell’illecito, con eventuale estensione della garanzie previste dagli artt. 6 e 7 CEDU, occorre guardare, oltre che alla qualificazione giuridica dello stesso, al grado di severità e allo scopo (preventivo, afflittivo, repressivo e non meramente risarcitorio) della reazione ordinamentale, non può dubitarsi che una sanzione amministrativa compresa tra un minimo di 400 euro e un massimo di 3.000 euro sia così severa da configurare una vera e propria pena criminale, tant’è che il DPCM n. 6/2020, stigmatizzando le violazioni al divieto di lasciare la propria abitazione, richiamava espressamente l’art. 650 c.p.

11.Violazione dell’art. 117, 1 co, Cost. per violazione del parametro internazionale interposto (la CEDU, non avendo l’Italia attivato la deroga prevista dall’art. 15 CEDU).

12.Violazione dell’articolo 138 della Costituzione, parametro definitorio della rigidità costituzionale e della supremazia della Costituzione: la catena normativa decreto-legge in bianco – DPCM fonte suprema dell’emergenza, in assenza di una precipua disciplina costituzionale delle fonti dell’emergenza (si veda, comparativamente, la costituzionalizzazione del estado de alarma in Spagna, l’etat d’urgence e le rispettive fonti derogatorie in Francia), rappresenta una autentica sovversione del principio di rigidità costituzionale e della Costituzione come fonte sulla produzione del diritto.

  1. (PQM): a mo’ di conclusioni

Si sostiene, in definitiva, che i decreti-legge nn. 6,19 e 33/2020 siano incostituzionali nella parte in cui prevedono la competenza esclusiva del DPCM a determinare i presupposti concreti e le misure di contenimento del contagio, compressive dei diritti fondamentali, in violazione degli articoli art. 3, 4,16,17,19,23, 24, 25, 33,77, 78, 111,117, comma 1, 120 e 138 della Costituzione. Conseguentemente si sostiene che i DPCM siano dichiarati incostituzionali per illegittimità derivata. In merito alla vigenza ed effettività degli atti emanati sulla base dei DPCM incostituzionali per illegittimità derivata, detto vizio invalidante si ripercuote sull’atto conseguente, generando la c.d. invalidità caducante, in quanto il loro  rapporto si sostanzia in una presupposizione-consequenzialità immediata, diretta e necessaria, nel senso che l’atto successivo si pone come inevitabile conseguenza di quello precedente, perché non vi sono nuove e ulteriori valutazioni di interessi, né del destinatario dell’atto presupposto, né di altri soggetti.

[1]L’ Osservatorio Permanente sulla Legalità Costituzionale nasce come organismo indipendente del Comitato Rodotà nel febbraio del 2020 per monitorare l’azione governativa e denunciarne gli abusi nelle sedi competenti. https://generazionifuture.org/osservatoriocostituzionale/  Questo documento è uno studio  per costruire la questione di legittimità costituzionale sulla filiera normativa COVID-19, è il prodotto della discussione congiunta dei suoi componenti (indicati al sito). La prefazione è di Alberto Lucarelli, stesura del testo è dovuta a Marina Calamo Specchia (ordinaria di diritto costituzionale comparato-Università degli Studi di Bari Aldo Moro), Alberto Lucarelli (ordinario di Diritto costituzionale – Università degli Studi di Napoli Federico II) e Fiammetta Salmoni (ordinaria di Istituzioni di Diritto Pubblico – Università degli Studi Guglielmo Marconi) e dei dott.ri Luca Dell’Atti, Giuseppe Naglieri, Guido Saltelli. La sinossi è dovuta agli Avvocati  Fabrizio Arossa e Alessandra Camaiani.

[2]H. Kelsen, Reine Rechtslehre (1934), traduzione italiana Le dottrina pura del diritto, Torino, Einaudi, 1961, p.81.

[3]M. CALAMO SPECCHIA, Principio di legalità e stato di necessità al tempo del “COVID-19”, in Osservatorio costituzionale, n. 3, 2020, p.3. Sul punto si veda anche A. LUCARELLI, Costituzione, fonti del diritto ed emergenza sanitaria, in Rivista AIC, n. 2, 2020, pp. 560-562; L.A. MAZZAROLLI, «Riserva di legge» e «principio di legalità» in tempo di emergenza nazionale. Di un parlamentarismo che non regge e cede il passo a una sorta di presidenzialismo extra ordinem, con ovvio conseguente strapotere alle pp.aa. La reiterata e prolungata violazione degli artt. 16, 70 ss., 77 Cost, per tacer d’altri, in federalismi.itOsservatorio Emergenza Covid-19, 23 marzo 2020, p. 13; R. DI MARIA, Il binomio “riserva di legge-tutela delle libertà fondamentali” in tempo di COVID-19: una questione non soltanto “di principio”, in Diritti regionali. Rivista di diritto delle autonomie territoriali, n. 1, 2020, p. 511; S. STAIANO, Né modello né sistema. La produzione del diritto al cospetto della pandemia, in Rivista AIC, n. 2, 2020, p. 546.

[4]D.L. n. 19/2020, art. 2, comma 3: “Sono fatti salvi gli effetti prodotti e gli atti adottati sulla base dei decreti e delle ordinanze emanati ai sensi del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 marzo 2020, n. 13, ovvero ai sensi dell’articolo 32 della legge 23 dicembre 1978, n. 833.  Continuano ad applicarsi nei termini originariamente previsti le misure già adottate con i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri adottati in data 8 marzo 2020,9 marzo 2020, 11 marzo 2020 e 22 marzo 2020 per come ancora vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto. Le altre misure, ancora vigenti alla stessa data continuano ad applicarsi nel limite di ulteriori dieci giorni”.

 

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