Era il 25 maggio dello scorso anno. Era il tempo in cui, attorno alla vaccinazione, avevamo costruito una mistica della libertà e della ripartenza, a costo di una certa leggerezza e di una sostanziale sottovalutazione dei rischi connessi a somministrazioni “allegre”, rifilate anche ai più giovani. Era il periodo in cui le Regioni, sostanzialmente incoraggiate o almeno tollerate dalle strutture centrali, organizzavano i famigerati “Open day”.
Camilla Canepa, diciottenne di Sestri Levante (Genova), quel giorno di primavera si era recata proprio in uno degli hub aperti a tutti, per ricevere il farmaco Astrazeneca. È un’iniziativa che le costa la vita. Il 3 giugno, la ragazza si presenta in ospedale, a Lavagna, per un forte mal di testa con fotosensibilità. Le viene fatta una tac senza contrasto (mentre le prime linee guida per individuare le trombosi post vaccino ne richiedono l’impiego); il giorno dopo viene dimessa. Il 5 giugno, essendosi aggravata, torna in corsia, ma ormai è troppo tardi: nonostante il trasferimento al San Martino di Genova, una trombosi al seno cavernoso, cinque giorni dopo, spegne per sempre il suo sorriso.
Alcuni mesi fa, i periti dei pm che coordinano le indagini sulla tragedia, hanno messo nero su bianco che Camilla è morta a causa di un effetto collaterale provocato dal vaccino anglosvedese e che non assumeva altri farmaci né soffriva di patologie pregresse. Adesso, però, all’inchiesta si aggiunge un dettaglio inquietante. I dottori che hanno curato la ragazza, infatti, sentiti dal magistrato come persone informate sui fatti, hanno confermato una testimonianza che già i genitori della Canepa avevano rilasciato nelle sedi competenti. Secondo questi ultimi, al momento del primo ricovero, la figlia aveva informato i medici di essere stata da poco inoculata con Astrazeneca. Allora, era già noto che quel medicinale potesse provocare gravi effetti avversi, tanto che, in seguito ad alcuni decessi sospetti e a un allarme lanciato dalla Germania, il vaccino era stato sospeso per alcuni giorni, il 16 marzo, anche dal ministro Roberto Speranza il vaccino era stato sospeso per alcuni giorni, il 16 marzo, anche dal ministro Roberto Speranza.
Due settimane dopo, Berlino aveva disposto un ulteriore stop, essendo state registrate cinque morti correlabili all’iniezione. Insomma, i sanitari avrebbero potuto e forse dovuto considerare la puntura anti Covid come un fattore di rischio, vista anche la giovane età della paziente: Astrazeneca, ad aprile, era stato “raccomandato” ai soli ultrasessantenni, benché non ne fosse stata vietata la somministrazione agli under 60. Ecco perché gli Open day… In più, appunto, esistevano già delle indicazioni sui metodi diagnostici per individuare trombosi e trombocitopenia postvaccino. Qualcosa, allora, non ha funzionato?
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