Tutto all’improvviso si è spento. La gigantesca macchina lanciata a 300 all’ora è stata fermata. Non da un default economico, che solo qualche mese fa ci faceva così paura, ma da un virus. E così, da un giorno all’altro, eccoci costretti in quarantena.
Ci siamo sorpresi, arrabbiati, ribellati e rassegnati. Ora però, si parla, finalmente, di ripartenza, di ritorno alla vita. Ma come? Questa è la domanda che tutti ci poniamo, stanchi di numeri, dati e previsioni che poi si rivelano costantemente sbagliati. Cosa resterà del nostro vecchio mondo quando lo tsunami del coronavirus si sarà ritirato (perché succederà)? Come sarà organizzata la nostra giornata una volta usciti dalla quarantena?
Che non sarà un ritorno alla normalità lo abbiamo capito ormai da tempo, del resto non ci dicono altro, e quindi una serie di cambiamenti possiamo immaginarli fin da adesso: dal lavoro all’esercizio fisico, dalla socializzazione allo shopping, dalla gestione della nostra salute ai viaggi. Che sia dentro un magazzino, un negozio o un ufficio, regole di convivenza e spazi dovranno essere elaborati ex-novo per permettere a tutti di lavorare senza esporsi a rischio contagio. “La spiazzante velocità con cui sono cambiate le nostre vite compromette la nostra capacità di accettare che l’uscita da questa crisi non sarà rapida quanto è stato il suo ingresso”, ha scritto il giornalista Francesco Costa. “Uno scenario che soltanto un mese fa avremmo considerato lunare – le code ai supermercati, la polizia per le strade a controllare chi esce di casa, le scuole chiuse, le rivolte e i morti nelle carceri, i treni che non partono, l’impossibilità di vedere i propri cari – oggi è la nostra vita quotidiana”.
Quando l’Italia e il mondo “riapriranno”, ci metteranno un bel po’ per tornare dove erano prima. E non è detto che ci riescano del tutto. Questa è anche l’opinione del direttore di Technology Review, magazine della prestigiosa università Massachusetts Institute of Technology, Gordon Lichfield. L’incipit del suo articolo, che è girato molto in Rete in questi giorni, recita: “Per fermare il coronavirus dovremo cambiare radicalmente quasi tutto quello che facciamo: come lavoriamo, facciamo esercizio fisico, socializziamo, facciamo shopping, gestiamo la nostra salute, educhiamo i nostri figli, ci prendiamo cura dei nostri familiari“.
Il direttore ha poi proseguito parlando di uno scenario drammatico relativo all’epidemia: “La maggior parte di noi probabilmente non ha ancora capito, e lo farà presto, che le cose non torneranno alla normalità dopo qualche settimana, o addirittura dopo qualche mese. Alcune cose non torneranno mai più“. Dobbiamo, tuttavia, metterci nell’ottica di un nuovo stile di vita e nuovi modi di consumo che coinvolgeranno innumerevoli settori: probabilmente ci dovremo abituare nei prossimi anni a diffidare di metro e bar troppo affollati, delle discoteche e degli hotel non standardizzati. Le palestre potrebbero convincersi a puntare di più su corsi online. L’e-commerce – unico medium attualmente disponibile per acquistare ciò che non si trova nel nostro circondario – potrebbe subire uno sviluppo radicale. I cinema, i centri commerciali potrebbero installare a tempo indeterminato poltrone distanziate almeno un metro l’una dall’altra, panchine dove ci si può sedere soltanto uno alla volta e così via.
Per rendere chiaro il concetto, Linfield fa riferimento all’emergere di una “economia rinchiusa”, di un’economia “del confinamento”, vale a dire legata a tutto ciò che è on demand, ordinabile da casa, chiesto e usufruito online. Già in ascesa prima del coronavirus, questa shut-in economy sarà avvantaggiata dall’inevitabile cambiamento dei nostri modi di abitare le città, dall’onda lunghissima del panico post-corona, ed è destinata a restare.
Secondo il celebre matematico Nassim Taleb e il fisico di sistemi complessi Yaneer Bar-Yam, lo studio dell’Imperial College presenta alcune importanti lacune, tra cui la sottovalutazione del ruolo centrale svolto dai tamponi durante una quarantena per monitorare i contagiati. Solo così, spiega la recensione critica del New England Complex Institute – mantenendo in piedi il lockdown per tutta la durata della crisi e al tempo stesso isolando i positivi – si potranno evitare nuove infezioni. Questa riflessione, tuttavia, non esclude il problema di fondo sottolineato in Technology Review: la necessità di adattare le nostre democrazie e i nostri comportamenti a un “distanziamento sociale” perenne, o quasi, tale da farci sembrare il mondo che c’era prima un vago ricordo.
Si potrà vivere in una realtà simile? Secondo Lichfield, il futuro potrà essere sostenibile solo se insieme al controllo sociale avanzeranno anche i sistemi sanitari, costituendo unità di risposta specifica alle pandemie, piani d’azione coordinati e capaci di muoversi ben prima che le epidemie si aggravino. Andrebbe inoltre sviluppata la capacità dei singoli Paesi di produrre da sé attrezzature mediche, kit di tamponi e farmaci senza dipendere da complesse catene di approvigionamento e dai capricci del mercato.
Quindi, tutto questo significherà abitare un mondo più algido, sospettoso e conformista? È presto per dirlo. Tuttavia, proprio perché le tentazioni autoritarie si rafforzeranno, unite a un basso livello di fiducia nella democrazia parlamentare, la sfida futura sarà definire regole e sistemi di controllo che bilancino protezione delle vite umane e rispetto per la loro dignità. Questa è la sfida che dovremo affrontare tutti noi, nel frattempo che proviamo ad adattarci al mondo nuovo.
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