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Joseph Capriati, il lockdown, il nuovo album, i, le riflessioni sulla vita, i social, la sua storia

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Mettetevi comodi. State per leggere una di quelle interviste lunghe, corpose, con tanti dettagli e aneddoti che non vi aspettavate. Una di quelle occasioni in cui scrollerete parecchio, ma, sono sicuro, non mollerete la lettura prima della fine.

Perché Joseph Capriati è uno dei pesi massimi della techno mondiale. E non si fa intervistare molto spesso, schivo e riservato com’è. E poi, perché si racconta in un modo davvero inedito.

Di più: non risparmia opinioni e punti di vita personali, errori, percorsi, scelte, cosa ormai rara in un mondo dove i manager e gli uffici stampa sono iper-protettivi e tirano per la giacchetta i propri artisti.

Giuseppe Capriati da Caserta inizia giovanissimo a fare il dj nella sua città natale (e il come ce la racconta qui), ritagliandosi un ruolo di tutto rispetto in una città, Napoli, che sullo scenario techno ha sempre goduto di enorme rispetto. Accettato dalla comunità dei grandi della prima generazione come Markantonio, Rino Cerrone, Gaetano Parisio, Capriati spicca poi il volo verso un successo di massa e globale.

Stiamo parlando di un personaggio da almeno 100 serate l’anno in tutto il pianeta, con cachet di una certa rilevanza, una popolarità indiscussa tra i fan e un peso, un’autorevolezza notevole per colleghi e addetti ai lavori.

Intervistarlo in un momento come questo è davvero interessante. Perché è fermo da mesi con le date (e ci spiega le sue motivazioni), e perché a settembre è uscito il suo nuovo album ‘Metamorfosi’, apprezzato per l’originalità artistica e la volontà di mescolare generi e stili, e dove invece di pensare a buttare dentro featuring strategici con le star del momento, si è concesso il lusso di avere delle leggende della musica house, come Louie Vega, Byron Stingily, Eric Kupper. E uno dei grandi padri del Neapolitan power, il mitico sassofonista James Senese.

Insomma, Capriati non è uno che si concede facilmente, il momento è assai propizio e l’abbiamo colto. Quindi, non ci siamo risparmiati. Lo ripetiamo: mettetevi comodi.

All’inizio di settembre è uscito il tuo album ‘Metamorfosi’, un lavoro di cui si è parlato a lungo sia tra i fan sia tra le persone del settore. Dopo un mese e mezzo, puoi fare un bilancio di come sta andando?
La release è andata bene, sta andando come mi ero aspettato. In digitale ha avuto la sua promo sui portali principali, c’è stata un’intervista in homepage su Beatport. Ma in realtà sta andando proprio bene nei formati fisici, siamo in ristampa, anche in CD. Ti rendi conto? Il CD lo danno tutti per morto, io sto vendendo il CD. Addirittura abbiamo fatto la cassetta, in 50 copie esclusive, una rarità. E poi ci sono 200 copie firmate in vinile di un’edizione limitata, che non ristamperemo e che sarà proprio un oggetto da collezione. È un album per il quale puntavo e punto sul supporto fisico, in vinile, con dei pack di pregio.

Perché tutta questa attenzione ai supporti fisici quando un album di musica elettronica e dance si dovrebbe soprattutto convogliare sul digitale?
Perché non è un album strettamente dance, techno. Anzi. È il disco che sognavo di fare da tempo, dove sono andato oltre. Oltre la musica che suono, oltre le produzioni che ho sempre pensato e realizzato partendo dall’idea di essere un dj. E anche gli artisti lo hanno supportato tanto: Carl Cox fu il primo a cui ne parlai, tempo fa, fu lui che mi spinse a fare “il disco della vita”. Ci avevo pensato molto, a quelle parole, e infatti ‘Metamorfosi’ ha richiesto una gestazione elaborata. Avevo pronte 25 tracce, sono diventate diventate 12 nella stesura finale. Ma poi proprio Carl mi mandò un feedback incredibile, si prese del tempo per ascoltare con cura e poi per scrivermi e mi disse tante cose. Mi disse che è “timeless”, che è senza tempo, non è una hit istantanea.

Come sei andato “oltre” con questo disco?
Mi sono addentrato in questo album attraverso un periodo molto particolare della mia vita. Ho avuto una specie di… non vorrei chiamarla “depressione”, non nel senso della malattia. Piuttosto, ho passato un periodo di umore generale piuttosto umbratile, ho ragionato sulla vita, sulla musica, su ciò che voglio, sulle relazioni, sulla felicità. Ho scavato dentro di me e sono andato nei capillari della mia anima e del mio cuore, ho capito che la musica per me non ha davvero confini, è lei la sorgente di tutto per me. E ci sono tante sfaccettature della musica che mi rendono felice, senza perdere di vista la techno, la house, quello che è il centro della “mia” musica. Ma l’arte va stimolata in molti modi. Voglio fare arte da oggi in poi, non soltanto musica “funzionale”. Questo ho pensato. E anche il progetto della mia etichetta Redimension va in questa direzione.

Come sarà il futuro di Redimension?
Il futuro di Redimension è più ampio di come era concepito prima di ‘Metamorfosi’, non ho più paura di pubblicare artisti che non vadano a colpo sicuro nelle chart, ma penso a uno spettro più ampio, con maggior spessore e ricerca.

Spesso succede che i grandi dj abbiano le loro etichette. E che però, quando si tratta di pubblicare il proprio album, scelgano altre label, magari delle major. Tu non hai pensato a quella possibilità per ‘Metamorfosi’?
Sì, non con una major ma certamente con un’etichetta più grande e strutturata della mia. Eravamo in trattativa con etichette importanti, e intendo al di fuori del circuito techno, parlo di indie di altissimo livello. Poi abbiamo deciso di uscire con Redimension, ci abbiamo messo un anno di più ma ci siamo, e sulla mia etichetta. E ho capito perché tanti super dj decidono di non uscire sulle proprie label.

Perché?
Perché è più difficile, ci abbiamo messo tre volte il tempo e cinque… fai dieci volte il lavoro di quando esci con altri, per tutte le questioni relative a distribuzione, promo, stampa, budget e tempistiche che in una struttura più grande sono gestite con meno pressione e più forze in campo. Ma la soddisfazione non è paragonabile. Ce la si può fare. Basta crederci e lavorare sodo.

Hai detto una cosa che qualche anno fa avrei liquidato come retorica: lavorare sodo. Oggi però sembra che il lavoro sodo sia nascosto da ciò che tutti ostentiamo sui social, dove non compaiono mai i problemi, le frustrazioni, i sacrifici e la gavetta spesso lunghissima che precede il successo. Insomma, il lavoro duro non si vede, non è mai raccontato…
Io i social li ho un po’ abbandonati, se pensiamo ai social non ne usciamo più. Hanno influenzato la musica anche in negativo. Sembrano una gara costante a chi mostra di più. Oro, macchine, jet ogni secondo. Non è il mio campionato, non è il mondo della musica elettronica. Capisco di più se lo fa un trapper, in quel mondo è parte dell’immaginario da sempre. È uno stile. Ma per un dj lo trovo fuori luogo. Puoi scegliere se utilizzare i social in modo funzionale alla musica oppure per fare il fenomeno. Non giudico chi lo fa, perché poi ci caschiamo tutti, e ogni tanto ci sta regalarsi la gratificazione della foto con la bella macchina o al ristorante di lusso, ci abbiamo messo anni per poterci permettere questi comfort, è anche una soddisfazione mostrarli, qualche volta. Non voglio fare il moralista. Ma non deve diventare un obiettivo del dj. Il dj è quello che suda sui piatti e si fa il culo per la musica e per far ballare le persone, non quello che mostra il jet e la bella vita. I social ti fanno credere di essere il numero uno per sempre. Non si può essere numeri uno a vita, quando lo credi è perché l’ego ti sta fregando.

A te è successo? Ti ha fregato?
Un po’ sì, all’improvviso a Ibiza, ti parlo del 2014. Marco Carola ebbe un’infiammazione al timpano e volle che lo sostituissi all’Amnesia, sulla “sua” terrazza, lì lui era la star assoluta. Feci uno dei migliori set della mia vita e tanta gente iniziò a venirmi intorno e a blandirmi, ero giovane e mi sentii su un piedistallo: “sei il più grande”, “sei il numero uno”… capirai, mi aveva chiamato Marco per sostituirlo, avevo dimostrato di saper reggere una consolle come quella, avevo dato il meglio e venivo adorato da tutti. Me lo meritavo? In parte sì, ho fatto una grande figura in quel contesto. Ma il pericolo era di montarmi la testa e perdermi.

Ma non ti sei perso.
No, perché ho sempre avuto intorno la mia famiglia e le persone del mio team che sono incredibili e che mi hanno tenuto i piedi per terra. Avere di fianco una persona come Genny Mosca, che lavora con me dall’inizio, è una fortuna. È uno che quando fai le prime serate da headliner, quando ti chiamano a Ibiza o ai festival importanti, ti ripete “non è il traguardo, è il primo passo di mille, attenzione, stiamo calmi”. E come lui il resto della mia squadra. E poi è soprattutto il modo in cui si vive la musica ad essere fondamentale per me: se la usi per risolvere la tua bassa autostima, come una sfida personale al mondo, prima o poi sbagli. Tante carriere poi sfociano nella depressione proprio per questo. La musica è ambizione e sacrificio ma anche gioia di fare ciò che si ama. Non è semplice. Poi tutti facciamo degli errori, certo; ne ho fatti tanti e ho imparato, imparo dai miei errori.

Sei in questo mondo da tanti anni ormai. Come l’hai visto cambiare?
L’ho visto cambiare tantissimo. Ho iniziato a suonare nel 1998, avevo 11 anni. Oggi ne ho 33 e ho suonato letteralmente in tutto il mondo. Capirai che cambiamenti ho visto…

Aspetta: raccontami bene la tua storia. Hai iniziato davvero a 11 anni?
Sì! A Caserta c’è un parco dove vivevano le famiglie americane della base NATO e io andavo a giocare a pallone lì con i miei amici, e vedevo questo DJ Mike, un signore che suonava per le feste americane, sai, il 4 luglio, cose così… arrivava con questo camioncino che si apriva e aveva la consolle, il palco, l’impianto. Mi affascinava, andavo sempre da lui e gli chiedevo cosa faceva, cos’è questo, cos’è quello. Alla fine avevo capito che ci volevano i giradischi e il mixer, ma costavano un occhio della testa, mio padre mi disse tassativamente di no. Allora durante l’estate andai con mio zio a fare il muratore, aiutavo a portare i mattoni, e a fine estate avevo 600mila lire per comprare un piatto Gemini a cinghia; un altro era della zia, un amico mi prestò un mixer due canali sempre della Gemini che possiedo ancora e ancora funziona, tra l’altro. E così cominciai a suonare alle feste nei garage e in casa.

E poi le prime serate nei club, immagino.
Diventai resident in un club qui a Caserta, il Subway. E fino al 2005 lavorai lì. Suonavo quasi tutti i giorni, all’inizio non venivo retribuito, gli amici mi prestavano i dischi. Mettevo di tutto, dalla commerciale ai balli di gruppo. Poi solo house e poi techno. Ma è stata una palestra fondamentale, perché ho imparato a leggere la pista, a capire chi avevo davanti e cosa potesse funzionare. Se c’erano venti persone e dieci non ballavano, era un problema. E dovevo risolverlo con la musica.

Sei un dj diventato poi producer, come molti in quegli anni. Quando hai iniziato a fare dischi?
Nel 2006 produssi il mio primo disco, non avevo nemmeno idea di cosa volesse dire andare in studio, a casa avevo solo un computer che era stato regalato a mio fratello per la comunione su cui avevo installato Reason della Propellerhead e due casse dell’hi-fi che non avevano i bassi e quindi dovevo tastare con la mano per sentire se la vibrazione era quella giusta. Non sto scherzando. Insomma, stampai questo disco e andò bene, 1300 copie, ma mia madre insisteva perché mi trovassi un lavoro, avevo 19 anni e non potevo permettermi di pesare sulla famiglia. Così decisi di fare il militare e poi il poliziotto, come mio padre. Però si perse un documento nella richiesta e non potei partire. Era un segno del destino. Infatti pochi mesi dopo la mia carriera cambiò marcia, ero già in mezza Europa a suonare. Il resto è storia, come si dice, negli anni le cose si sono messe bene.

E qui torniamo alla domanda di prima: come è cresciuto questo mondo?
È cambiato parecchio e onestamente non mi aspettavo una crescita così. In pochi anni le dimensioni sono diventate gigantesche e le dinamiche di lavoro sono cambiate di conseguenza, con i festival, i mainstage, le grandi produzioni. Io sono un dj da club e morirò come dj da club. Il festival è il succo, il riassunto di quello che fai in un club. È un set di sei ore concentrato in un’ora, e ho imparato a gestire quel tipo di situazione nel tempo. Poi ci sono anche stage più contenuti, ma io amo i mainstage, nonostante tutto. Mi piace il set di chiusura perché è una gratificazione immensa, non lo nascondo. Ma anche in set dall’orario più centrale mi diverto e posso fare altro, suonare cose diverse dalle “bombe” da peak time.

Hai detto che sei un dj da club: non hai paura dei grandi palchi?
Certo che ce l’ho. Ancora oggi. Mi tremano le gambe, non dormo, ci penso molto prima di suonare a festival importanti come Ultra Miami, Awakenings, Time Warp. Mi preparo settimane prima, sia per il set sia mentalmente. Faccio edit, remix da suonare per l’occasione, penso alle tracce di chiusura, penso a cosa potrà spaccare. La traccia di chiusura in un set dev’essere un momento epico, non si può lasciare al caso.

Stiamo raccontando un mondo che sembra appartenere a un’altra dimensione. Festival, club, dischi di chiusura. Da mesi ormai la chiusura riguarda noi e le nostre vite che sono cristallizzate dall’emergenza sanitaria. Come vivi questo periodo così strano?
Se ti dicessi che non sto soffrendo ti direi una bugia. La musica è la mia vita, per dirti ho lasciato una fidanzata molto importante per la musica. Però se si tratta di fare musica in modo illegale non ci sto. Nella situazione e nel modo in cui hanno riaperto i club, a luglio, agosto, mi sono chiesto, con un esame di coscienza, “ma va bene fare tutto questo?”. Lo Stato ha deciso di riaprire e poi di chiudere di nuovo dopo agosto, senza regole chiare, senza controlli, siamo stati un capro espiatorio. Parlando con amici promoter ho capito che anche le date che avevo fissato, dove sapevo che c’era maggiore cautela e cura, non erano sicure. Non era il caso. Da un lato vedevamo gente che moriva, dall’altro i video di gente che fa festa. E ho pensato che non mi sarei sentito a mio agio così. Io ci tengo alla mia immagine, perché rappresento il mio popolo, quello della notte, e non siamo criminali, la discoteca è una fotografia della società, se ci pensi. La discoteca è cultura e anche un anti-stress per tutti, per un medico, un avvocato, uno studente. Se fossero usciti dei video di mie serate, di feste, sarebbero state prese di mira da media che ne avrebbero distorto l’utilizzo. Non mi volevo prestare a quel gioco per nessuna ragione. Io tornerei a suonare domani, ma non voglio lasciar dire a nessuno che sto facendo una cosa sbagliata. Con tutto il rispetto per chi ha scelto di lavorare comunque, perché sono scelte molto personali; già si è alzato un polverone per un mio status su Facebook un po’ fuori dal coro di amici e colleghi, sia chiaro che non c’è stato nessun attacco personale, è solo la mia prospettiva di vedere una situazione anomala e molto snervante.

Quel post mi è sembrato una grande dichiarazione di responsabilità, in un mondo che in qualche caso ha mostrato egoismi e poca maturità come il nostro, nei mesi passati.
Me ne sono pentito, di quel post, perché comunque ho messo in cattiva luce persone che non avevo intenzione di ferire o denigrare. Perciò da allora i social li uso con molta parsimonia e cautela, bisogna pensarci mille volte prima di scrivere cose che rimangono. E non è nulla di personale, ripeto, il mio era un segnale per il nostro settore ma mi sono arrivate critiche che non mi aspettavo.

A proposito di social: hai una marea di follower e alle tue serate l’affetto di questa fanbase è palpabile, ti chiamano “Peppino”, come fossi uno di famiglia. Come si arriva a questo tipo di successo popolare?
Non lo so, credo sia quel lavoro duro di cui parlavamo prima. E poi, c’è Napoli. I napoletani sono eccezionali quando si riconoscono in qualcuno e ci si affezionano. Nei primi anni in cui iniziavo a suonare in posti importanti con slot importanti, facevano il passaparola in pista per far scoprire a tutti chi fossi, e piano piano anche fuori se ne sono accorti. Facevano proprio il tifo, sostenevano. E ha funzionato!

Perché Napoli è così forte sulla techno?
Non solo sulla techno, anche sulla house. Perché Napoli è una città estrema e quando qualcosa piace, Napoli ci mette il cuore. La techno a Napoli è un movimento, quasi una cosa politica, un atto politico. Come il calcio, se ci pensi. Poche città hanno questa vibe. Buenos Aires, Medellin.

Ultima domanda, un classico che l’ABC del giornalismo dice di evitare ma che secondo me oggi assume un significato vero: progetti per il futuro?
C’è in cantiere un disco house sulla label di Kerri Chandler, Madhouse, per il 2021. E un album con Enzo Avitabile, un visionario che si è interessato alla techno, alla mia musica. E sarà proprio techno. Poi sono pronti due EP di tracce da dancefloor che arrivano dalle session di ‘Metamorfosi’, e i remix dell’album con nomi prestigiosi che sorprenderanno tutti. Insomma, ci sono dei grandi progetti per il futuro. Non ci fermiamo. (https://www.djmagitalia.com)

 

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