Reati di rapina, aggressioni, lesioni personali e minacce. Quello delle baby gang è un fenomeno preoccupante che vede protagonisti gli adolescenti e i più piccoli.
Dopo il lockdown e la fine delle restrizioni la violenza di questi gruppi è letteralmente esplosa nelle città italiane. Perché?
A Caserta è stata recentemente individuata la baby gang che da mesi terrorizzava i giovani della città aggredendo e derubando i propri coetanei. Il caso di Caserta non è isolato, le baby gang sono un problema in tutto il Paese e il complesso periodo della pandemia ha solo peggiorato la situazione.
Che cosa spinge i giovani ad usare la violenza in gruppo? Come “punire” gli aggressori più piccoli visto che l’opzione del carcere non è praticabile per questioni di età?
CasertaKestè ne ha parlato con il Dott. Cristiano Esposito, Psicologo e psicoterapeuta.
È stata sgominata qualche giorno fa a Caserta una baby gang che terrorizzava e derubava i ragazzini. Arrestati alcuni membri del gruppo, al vaglio la posizione dei minorenni. È un fenomeno che interessa tutta l’Italia. Cosa spinge i ragazzi a commettere atti di violenza?
La situazione è peggiorata durante la pandemia. A causa delle restrizioni che sono state imposte dai vari lockdown il fenomeno si è inasprito, si è andato a reprimere un problema che è stato sottovalutato.
La problematica non è stata affrontata né elaborata, ma è stata repressa e tenuta al chiuso nelle case. Nel momento in cui le restrizioni sono venute meno, il fenomeno si è manifestato gravemente, perché è esploso con tutta quella forza che nasce dalla repressione, la quale genera un accumulo di energia.
Abbiamo assistito al fenomeno delle risse violente nelle piazze fra giovanissimi. Il problema preponderante è la gestione della rabbia, che fra i giovani è frequentemente incontrollata. I giovani non hanno strutture consolidate per riconoscere emozioni frustranti e gestire la propria rabbia, agendola nelle relazioni interpersonali. C’è anche un altro genere di problema secondo me.
— Quale?
— La suggestione. Le baby gang sono un fenomeno che interessa soprattutto i giovanissimi, spesso suggestionati da serie tv o dai testi di alcune canzoni di rapper e trapper, artisti che cantano la rabbia dei giovani. I giovani che ascoltano queste canzoni sembrano incapaci di interpretarle, le applicano alla lettera. Molti di questi testi sono intrisi di violenza, i giovani non rielaborano quello che leggono. Loro vivono queste canzoni senza filtri immedesimandosi nel personaggio di potere idolatrato in questi generi musicali e televisivi.
Una delle motivazioni va ricondotta alla incapacità da parte delle famiglie di riuscire a filtrare queste influenze e ad aiutare i ragazzi a dare la giusta interpretazione agli stimoli esterni, nonché a controllarne la fruizione. Una seconda motivazione va ricercata all’esterno e mi riferisco all’indebolimento di quelli che sono i pilastri istituzionali e di controllo.
— Al problema delle baby gang, diffuso in tutta Europa, non esiste una soluzione giuridica. I minorenni di queste bande non finiscono in galera. Come “punire” i più piccoli?
— Preciso che i ragazzi non andrebbero puniti ma educati ed accompagnati nel percorso di crescita individuale e sociale. È un problema che riguarda il legislatore ma che coinvolge inevitabilmente la nostra categoria professionale. Le famiglie e i giovani che seguo manifestano spesso un senso di abbandono da parte delle istituzioni rispetto al controllo sul territorio e alla prevenzione del problema. Spesso alcuni adolescenti sono lasciati soli e quindi si legano a gruppi che riempiono e sostituiscono quel vuoto, altri sanno che non potranno essere puniti e quindi forti di questa consapevolezza tendono a sentirsi protetti nelle espressioni delle loro azioni violente.
Ritengo che il primo passo necessario sia agire sulle famiglie, individuare un percorso di sostegno alla genitorialità anche attraverso le istituzioni e non esclusivamente in forma privata. Le famiglie oggi non hanno supporti e strumenti necessari a sostenerle. La famiglia come nucleo si è indebolita a causa delle criticità sociali e culturali, e inconsapevolmente, ma cosciente dell’incapacità di impostare delle regole per educare, delegano all’esterno, alle scuole e/o ai social media la responsabilità educativa dei ragazzi.
Allo stesso tempo anche la scuola è stata delegittimata in questi anni, è diventata più fragile. Spesso i genitori si coalizzano con i figli contro gli insegnanti non riconoscendogli il ruolo educativo e di rispetto che dovrebbero avere.
Qualora l’intervento di recupero sociale di questi ragazzi attraverso percorsi di sostegno mirati non risulti sufficiente, sarebbe risolutivo applicare delle misure che li “educhino al rispetto del prossimo o della cosa comune” magari attraverso programmi di reinserimento sociale, all’interno di strutture per anziani, piuttosto che per disabili o per la conservazione dei beni artistici culturali. Questi ragazzi spesso vandalizzano proprietà pubbliche ed opere d’arte, creando danni nelle città per puro divertimento. Viceversa educarli a prendersi cura di persone o cose, contribuirebbe ad attivare quelle aree emotive che sono anestetizzate da uso di alcool o droghe e da eccesso di violenza, inducendoli ad entrare in relazione con se stessi.
— È stato un anno e mezzo difficile per tutti, ma possiamo dire che si è prestata poca attenzione soprattutto nei confronti degli adolescenti da un punto di vista psicologico?
— Certo, i giovani sono stati maggiormente destabilizzati dalla pandemia. Tali inevitabili restrizioni hanno inibito la socialità e potenziato il forte senso di solitudine. I giovani più che gli adulti hanno vissuto quella che noi definiamo La sindrome della Capanna, vivendo nell’impossibilità di riuscire a trovare una soluzione. Un adolescente patisce la limitazione di non poter vedere gli amici, la ragazza o il ragazzo. Per un adolescente è più difficile tollerare la frustrazione derivata dalla negazione e dal divieto.
La DAD, mezzo attraverso il quale si è cercato di contenere la dispersione scolastica, in alcuni casi ha contribuito negativamente rafforzando il senso di solitudine e di reclusione e aumentando esponenzialmente il numero di ore durante le quali i ragazzi erano esposti all’educazione dei social media, eludendo il controllo delle famiglie.
L’aumento dei comportamenti anti sociali sono la conferma che la reclusione è dannosa per un giovane in fase di crescita, ma lo è altrettanto la concessione incontrollata della libertà. Il senso di liberazione che hanno vissuto i ragazzi, e non solo loro, ha dato origine ad una frenesia liberatoria che purtroppo è sfociata in comportamenti violenti e di aggregazione anti sociale.— Per prevenire atti di violenza e di bullismo che cosa occorre fare a partire dalla scuola? Andrebbe introdotta in modo capillare la presenza dello psicologo?
Dallo scorso anno, la figura dello psicologo è stata introdotta nelle scuole ma le ore a nostra disposizione, non sono sufficienti affichè il percorso di sostegno sia valido e funzionale. Ritengo che sia importante garantire la presenza permanente all’interno dei plessi scolastici di uno psicoterapeuta capace di intervenire e di accompagnare gli adolescenti nel loro percorso scolastico e di vita, nonché di sostenere i docenti.
Non credo che sia la soluzione, ma andrebbe strutturato un progetto mirato, per evitare di perdere ragazzi lungo il cammino. È importante educarli al rispetto per se stessi e per gli altri.
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