14 Settembre 2017 – Primo giorno di scuola.
Chi ricorda la “nostra” prima volta? Vagamente un’immagine sfuocata, messa a fuoco nella mente un pochetto, ma nitida in questo giorno vedendovi trainare quella cartella, mai portata.
Fuori scuola c’è chi con gli occhi pieni di lacrime, chiama fortemente la mamma, che si allontana volgendo le spalle, dopo aver passato quella mano che era nella sua fino a qualche istante prima…’affidandovi’.
Mi rivedo, rivedo il mio banco in prima fila in formica azzurro, il mio grembiule blu; il fiocco tricolore, quello sguardo attento e birichino che avevo come avrebbe scritto poi l’insegnante qualche mese dopo sulla pagella. E poi i miei compagni, con alcuni di loro ci vediamo ancora, altri sono solo un volto bambino rimasto impresso nei pensieri che scorrono.
E poi la maestra: Maria una di quelle poche persone che ti cambierà la vita, che ti indicherà delle strade, che lascerà una traccia, che volente o nolente plasmerà con le sue mani quell’argilla informe che ti porti addosso.
Per questo in classe non può entrare chiunque, ma uomini e donne che sappiano avere una relazione con i bambini; maestri e maestre che abbiano delle vite “ricche” e non impoverite dalla burocrazia, dal desiderio di voti e verifiche.
Insegnanti che sappiano sorridere: “Nelle nostre scuole, si ride troppo poco – scriveva Gianni Rodari -. L’idea che l’educazione della mente debba essere una cosa tetra è tra le più difficili da combattere”.
I maestri non sono tutti uguali. E’ infingardo immaginare un maestro adatto a un bambino di sei così come a quello di dieci. E’ ipocrita dire che tutti sanno ascoltare, ridere, osservare un bambino o un ragazzo di dieci anni.
Quel maestro o quella maestra che avete incontrato stamattina non lo dimenticherete più solo se sarà stato davvero “magister”, il più grande.
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