Facebook ha rimosso il video in cui il leader della Lega Matteo Salvini citofonava a una famiglia residente a Bologna chiedendo se erano spacciatori.
Nei sette giorni in cui è rimasto online sul social network, il video ha totalizzato più di 280 mila visualizzazioni.
Due domande: perché è stato rimosso? E perché è stato rimosso solo a urne chiuse, se c’è una correlazione temporale fra i due eventi? I quesiti sono importanti perché la piattaforma ha un ruolo attivo nel dibattito pubblico, come ha scritto la giudice del Tribunale di Roma che ha imposto la riattivazione della pagina di CasaPound, e le viene chiesto di essere più interventista ma anche più trasparente, perché poi l’impatto e la modalità degli interventi scatenano dubbi e polemiche.
Quindi, cosa è successo? Come apprendiamo e afferma FACEBOOK , il video in questione «ha violato le nostre regole sulla privacy. Queste regole chiariscono che non è possibile pubblicare informazioni personali o riservate su altri senza aver prima ottenuto il loro consenso».
Perché allora ci domandiamo, si decide di cancellarlo dopo una settimana, lasciandolo online dal 21 al 28 gennaio?
«Vogliamo sempre rimuovere i contenuti che violano le regole dei nostri servizi il più rapidamente possibile. Tuttavia, alcune delle decisioni che dobbiamo prendere su cosa rimuovere e cosa no, sono incredibilmente complesse e sfaccettate, e richiedono un’attenta considerazione di molteplici fattori. Vogliamo assicurarci di prendere queste decisioni nel modo più corretto impiegando tutto il tempo necessario», risponde il portavoce del social.
Violazione della privacy, dunque, perché nel filmato – che sul nostro sito è stato pubblicato in una versione modificata – Salvini faceva nomi e cognomi, oltre a rendere facilmente ricostruibile l’indirizzo preciso in cui si era recato.
In un primo momento si era parlato di incitamento all’odio: alcuni screenshot degli utenti, fra i quali il giornalista Raffaele Angius, mostravano che il filmato era stato segnalato per questo motivo. Come sappiamo, il social network fa analizzare le segnalazioni (o i dubbi dei suoi sistemi automatici) dei suoi iscritti da uno o più dei suoi 15 mila revisori e poi notifica la decisione a chi ha posto il problema. Nel corso della settimana, aveva più volte respinto le lamentele e gli appelli sostenendo che la regola sull’incitamento all’odio non era stata violata.
Secondo quanto emerso adesso, invece, i revisori si sono presi del tempo ulteriore per valutare il contenuto in base alle altre norme della piattaforma, concludendo che non rispettava quella sui dati personali.
Tutto bene? No, perché la tempistica rimane problematica: se si decide di procedere con l’eliminazione sette giorni sono tanti, visto che stiamo parlando dell’identità di un minore e di un contenuto che era stato subito segnalato e molto discusso sugli (altri) media.
Facebook non ha mai fatto mistero, e lo ha ribadito in settembre in un discorso del suo vice presidente degli affari globali Nick Clegg, di ritenere che «non è il nostro ruolo intervenire quando parlano i politici.
Sarebbe accettabile per la società che un privato diventi arbitro di tutto ciò che dicono i politici? Non credo, in democrazia i cittadini devono poter essere messi in condizione di giudicare autonomamente».
Si muove dunque con i piedi di piombo, e ci può anche stare, ma per la seconda volta ha agito a bocce ferme: la prima era stata lo scorso settembre, quando ha rimosso CasaPound e Forza Nuova nel giorno della fiducia del governo Conte II, che a differenza del precedente non è sostenuto da forze incrociatesi in passato con i movimenti di estrema destra.
La seconda è questa, in cui una delle uscite più aggressive e discusse di Salvini è stata eliminata solo a urne chiuse.
Le ricostruzioni di Facebook dimostrano che le variabili prese in considerazione sono state altre, ma si può e si deve fare meglio, soprattutto in termini di trasparenza e in attesa che il Digital Services Act europeo in cantiere chiarisca quali sono le responsabilità delle piattaforme e i tempi in cui devono muoversi.
A porre l’accento sul problema della privacy era stata anche l’avvocata del minorenne coinvolto nell’aggressiva azione del senatore leghista, Cathy La Torre.
«Abbiamo avuto bisogno di tempo per cristallizzare le prove: migliaia di condivisioni, commenti d’odio e insulti che dimostrano il danno alla privacy e alla reputazione, come prevede l’articolo 10 del Codice civile.
Per noi la decisione di Facebook è stata tempestiva», ha spiegato La Torre, pronta a questo punto a portare il caso davanti a un giudice per chiedere un risarcimento.
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